Il dibattito politico di questi giorni continua ad incentrarsi, in gran parte sul referendum costituzionale del prossimo autunno: passaggio che resta uno snodo fondamentale e dirimente per il futuro di questo Paese. Recentemente sono intervenuti, con l’obbiettivo evidente di cercare di correggere le più pesanti forzature renziane – Italicum e radicale personalizzazione della scelta referendaria – alcuni tra i più prestigiosi “padri nobili” del Pd: da De Benedetti a Bazoli fino, buon ultimo, a Violante. Tutti, e certamente non a caso, lo hanno fatto, con interviste o articoli, sul Corriere della Sera massimo “organo istituzionale” di quel capitalismo referenziale, tipicamente italiano, che evidentemente intende - sulla scia del sostegno plateale di Confindustria e dopo la “batosta” alle amministrative di giugno - dare una mano a Renzi anche nel riconvertire la sua posizione referendaria in termini più moderati, meno provocatori e più difendibili. Una operazione di “maquillage politico/culturale” - imperniata sull’idea di ritoccare l’Italicum, e di spostare il dibattito, dalla originaria impostazione renziana di scontro frontale personalizzato, alla discussione di merito – linea alla quale ha dato il là il, sempre onnipresente, presidente emerito Napolitano seguito a ruota dalla presidente della Camera Boldrini. Quanto incisivo, poi, riuscirà ad essere tale tentativo resta tutto da vedere. C’è, infatti, una specie di filo rosso che collega le posizioni di questi tre, ultimi, “padri nobili” del Pd: un evidente disagio nel difendere e patrocinare l’ambiguo riposizionamento renziano. Un disagio che traspare in maniera ruvida e diretta dall’intervista a De Benedetti che afferma: “o una nuova legge elettorale o voterò no”; si esprime in maniera più felpata, ma non per questo meno forte, nel “si” del “cattolico” Bazoli; riemerge chiarissimo nel “si” espresso da Violante con faticose, e per lui inusuali, contorsioni logiche. Di Bazoli si è già parlato in un precedente articolo. Vale, invece, la pena di soffermarsi sui ragionamenti di Violante che lasciano intravedere, in modo davvero sorprendente, come alle “ragioni del sì” creda, davvero poco, anche lui stesso. Scrive, infatti, l’ex presidente della Camera: “Poiché non ogni cambiamento è di per sé migliorativo, occorre guardare i contenuti della riforma, se essi, aldilà delle imperfezioni tecniche, segnano davvero un miglioramento. Oggi un esame del merito è più facile perché la minore indisponibilità del presidente del Consiglio a ridiscutere l’Italicum e l’iniziativa della sinistra del Pd su una nuova legge elettorale ha sciolto l’intreccio velenoso tra riforma e italicum”. Dall’ analisi di questa breve frase emergono immediatamente diverse affermazioni specifiche che denunciano una latente posizione di disincanto e criticità verso questa riforma costituzionale e verso il modo di gestirla ed imporla da parte del duo Renzi/Boschi.
1)“Non ogni cambiamento è di per sé migliorativo”. Sono parole che potrebbero solo sembrare, e lo sono, di semplice buonsenso ma che configgono palesemente con tutta la retorica del cambiamento ad ogni costo sulla quale Renzi ha imperniato l’intera campagna referendaria; 2) tra riforma costituzionale ed Italicum c’è un “intreccio velenoso”: affermazione totalmente condivisibile ma che non è certo tra “le ragioni per votare sì”; 3) “ la minore indisponibilità del presidente del Consiglio a ridiscutere l’Italicum e l’iniziativa della sinistra del Pd su una nuova legge elettorale” avrebbero sciolto “l’intreccio velenoso tra riforma e italicum”. Ma dove mai? A parte che “la minore indisponibilità” (e l’espressione scelta dice tutto!) non ha mai sciolto nulla, i fatti sono che Renzi ha appena concesso, (bontà sua!), che sulla legge elettorale il Parlamento è sovrano, se ha i voti, e che comunque di cambiare l’Italicum se ne parlerà solo dopo il referendum. Date queste premesse non meraviglia che, quando si passa a discutere del merito, le argomentazioni di Violante, a sostegno delle “ragioni per votare sì”, risultino insolitamente deboli e fragili per un personaggio del suo spessore. Lasciamo da parte il tentativo di accreditare la riforma come capace di superare l’estraneità dei cittadini alla politica solo perché prevede il referendum propositivo e stabilisce un termine determinato per la presa in esame delle proposte di legge di iniziativa popolare. Si tratta di “amenità” rispetto al fatto che quella stessa riforma, senza abolire, dopo tanto rumore, né il Senato, né i suoi costi, finisce con il darlo “in feudo” a Regioni - oggi più screditate che mai- espropriando la sovranità popolare e cancellando il diritto costituzionale dei cittadini elettori di scegliere i propri rappresentanti: come già avvenuto, peraltro, con la sedicente abolizione delle provincie. Ma, al di là di tutto questo, il “piatto forte” che Violante cerca di predisporre per sostenere la scelta del sì è sottolineare la difficoltà di “riprendere il filo delle riforme dopo una bocciatura popolare”. Cosa che fa richiamando l’esperienza della bocciatura della riforma costituzionale berlusconiana del 2006 quando, come ricordano D’Alema e De Siervo che Violante pure cita, non successe appunto nulla di tragico: tutto restò come prima; in una stasi che rappresenterebbe il massimo pericolo. Una tesi che assolutamente non convince: perché una riforma qual che sia, una riforma “guazzabuglio”, una riforma che è solo, e soprattutto, una manipolazione della Costituzione vigente è di certo peggiore del mantenimento dello “status quo”. Pur tuttavia questo non è l’argomento veramente determinante: ce n’è un altro molto più pregnante. Sarebbe, infatti, un errore immaginare che quello che è successo nel 2006 possa ripetersi oggi tal quale. Troppa acqua è passata sotto i ponti nei dieci anni che sono trascorsi, da allora ad oggi; e sono stati anni troppo stravolgenti, non solo per Italia ma per il mondo.
La crisi della finanza globale e lo strapotere dei mercati; lo stravolgimento di assetti sociali consolidati; l’impoverimento generalizzato delle classi medie; il dilagare della povertà per i ceti più deboli; il continuo rimettere in discussione le tutele di un’Welfare che tutti percepivano come consolidato; uno stato di guerra, non dichiarata , ma non per questo meno atroce e sanguinaria e le migrazioni epocali che ne conseguono; lo sgretolarsi delle sovranità nazionali di fronte ad un potere europeo sempre più in crisi, sempre più percepito come tecnocratico e lontano ed, allo stato, incapace di esprimere una vera sovranità politica europea, impongono, quando si tocca la Costituzione, una visione ampia ed uno sguardo capace di vedere lontano. Proprio quello che manca paurosamente a alla riforma Renzi/Boschi e che, invece, ebbero, i nostri padri costituenti negli anni, altrettanto sconvolgenti, dell’immediato dopoguerra: visione e sguardo che hanno consentito all’Italia di crescere e rafforzarsi nella pace, nel benessere e nella solidarietà durante tutta la seconda metà dello scorso secolo. Proprio quello di cui l’Italia avrebbe oggi bisogno per affrontare positivamente gli anni decisivi che ci attendono. Una visione ed una lungimiranza che può avere solo una Assemblea Costituente eletta, per un tempo precisamente determinato, con sistema proporzionale pieno, e investita di quella solenne autorità che può discendere solo dalla sovranità popolare, pienamente e correttamente espressa. Possibilità, quest’ultima che potrebbe nascere solo dalla bocciatura popolare della riforma Renzi/Boschi come ha, peraltro, recentemente affermato anche Stefano Parisi introducendo per primo, nel dibattito politico, la prospettiva dell’Assemblea Costituente. In questo senso potremmo ben sostenere che il pericolo della palude, della stagnazione e del piccolo cabotaggio si accompagna, paradossalmente, proprio alla eventuale conferma referendaria della riforma Renzi/Boschi.
Pier Paolo Saleri