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28/06/2016
Le ragioni del No
Non si può non rimarcare la sostanziale incompatibilità, con i principi base del costituzionalismo, di una iniziativa governativa tanto pesante e spregiudicata

“Il potere costituente si è esaurito il 22 dicembre del 1947” quando l’Assemblea Costituente chiuse i battenti licenziando il testo della nuova Carta Costituzionale. È una affermazione di Dossetti profondamente penetrata nella cultura del costituzionalismo italiano, soprattutto nell’area della sinistra cattolica e della sinistra tout court, fino a determinare una sostanziale sacralizzazione della Costituzione che ha da sempre reso quasi “eversivo”, qualsivoglia progetto o semplice intenzione, di modifica costituzionale. Si tratta di un’affermazione che ha avuto, per il nostro Paese, enormi conseguenze politiche.  È, allora, essenziale richiamarla, proprio per prenderne le distanze, nel momento in cui ci si accinge a formulare una critica radicale nei confronti della riforma costituzionale Renzi-Boschi. Se, infatti, questa posizione “conservatrice” è la motivazione di fondo che sottende l’opposizione alla riforma della Costituzione della sinistra relativista e di una parte della sinistra cattolica – e cito per tutti i nomi di Zagrebelsky e di Onida – è chiaro che non può essere, in nessun modo, la motivazione della nostra opposizione. In una visione ispirata alla Dottrina sociale della Chiesa la Carta Costituzionale è certo, la legge fondamentale dello Stato ma è, pur sempre, una legge dello Stato e deve, anch’essa, essere ordinata e funzionale al bene comune. In questo senso “il potere costituente”, che appartiene alla sovranità popolare, non può mai esaurirsi. Ciò non vuol dire, però, che qualsiasi riforma debba essere avallata. Soprattutto quando ci si trova di fronte ad una riforma, come è il caso attuale, che si configura, in realtà più come una manipolazione della vigente Carta Costituzionale che come una vera e propria riforma costituzionale organica e di ampio respiro: un intervento che risponde a logiche di potere immediato, addirittura personale, imposta da un governo arrogante a colpi di voti di fiducia, priva di quella visione organica che sola può restituire stabilità ed incisività alla nostra democrazia. Ciò balza evidente agli occhi non appena si esaminino sia la forma, cioè le modalità e le metodologie con le quali il governo ha ottenuto l’approvazione parlamentare, sia la sostanza, cioè i contenuti degli interventi e delle modifiche realizzate.

In un processo così delicato e vitale per ogni democrazia, quale è una riforma costituzionale, anche la procedura formale, oltre che la sostanza, è essenziale per realizzare una buona riforma. Nella fattispecie la strategia e gli strumenti politici che Renzi ha utilizzato per arrivare al risultato sono assolutamente devastanti. Con le sue furbizie, le sue dichiarazioni arroganti, ed ancor di più, con l’arroganza delle modalità d’intervento utilizzate nell’iter parlamentare di revisione costituzionale e della nuova legge elettorale, ha creato, di fatto, un clima di “scontro all’arma bianca” e di deriva plebiscitaria che va a gravare inevitabilmente sulla “sua riforma” e sull’intera campagna referendaria. Ha inficiato il senso profondo dello stesso processo di revisione della Costituzione, intesa come “patto solenne che unisce un popolo sovrano”, finendo col dividere e lacerare quello stesso popolo e trasformare il voto in un plebiscito sul suo governo e sul suo potere. Non si può non rimarcare la sostanziale incompatibilità, con i principi base del costituzionalismo, di una iniziativa governativa tanto pesante e spregiudicata. Sono stati adottati strumenti di riduzione della discussione, come la sostituzione, d’autorità, dei componenti della Commissione Affari costituzionali del Senato perché portatori di posizioni difformi, la riduzione degli emendamenti con l’applicazione del “canguro” e il contingentamento dei tempi di discussione (“tagliola”). A tutto ciò si deve poi aggiungere il mancato dibattito, in Commissione, sugli articoli del disegno di legge. Né, d’altro canto, il contesto politico che ha consentito l’approvazione del ddl di revisione costituzionale è meno inquietante. La prima parte del suo iter parlamentare è stata resa possibile dal “patto del nazareno”, con un Berlusconi dimezzato dall’esito delle sue vicende penali. Un patto cui, è ormai noto, sottostava “l’accordo indicibile” di eleggere un presidente della Repubblica disponibile a concedere la grazia all’ “ex-cavaliere”: lui stesso lo ha dichiarato, con candida impudicizia, dopo la caduta della candidatura di Amato e la sua rottura con Renzi. La conclusione dell’iter legislativo è stata, invece, garantita da una delle più eclatanti operazioni trasformistiche della storia parlamentare italiana: la seconda scissione di F.I gestita da Denis Verdini.

Questo quadro complessivo incide pesantemente sulla credibilità della riforma. Né si può dimenticare che il premier che ha effettuato questa operazione, con tutte le relative forzature, non è stato legittimato dall’elezione popolare ma solo dalla direzione del Pd, mentre il Parlamento, che l’ha approvata, è stato eletto con una legge dichiarata incostituzionale “per aver rotto il rapporto di rappresentanza”. Quanto al merito la prima notazione da fare è che questa riforma costituzionale costituisce, di fatto, un tutt’uno con “l’Italicum”, legge elettorale imposta da Renzi e, fino ad oggi, dichiarata intoccabile ed immodificabile. Una Legge elettorale gravemente lesiva dei più basilari principi di rappresentanza democratica e che nel caso, molto probabile, di ballottaggio, rischia di consegnare il governo del Paese ad una esigua minoranza. Nel contempo la quasi totalità dei deputati, continueranno ad essere nominati dai capipartito attraverso il trucco dei “capolista bloccati”. L’Italicum, inoltre, realizza la trasformazione di fatto del sistema di Governo da Parlamentare in presidenziale, dando vita ad una sorta di “premierato assoluto”, attraverso l’indicazione elettiva del candidato premier (art. 2 comma 8 “Italicum”). Si trasforma, così. l’elezione del Parlamento anche in elezione del Presidente del Consiglio in violazione dell’art. 92 comma 8 della Costituzione.  Un caso scandaloso di spostamento occulto del baricentro del potere, a favore del Governo, soprattutto perché realizzato aggirando la Costituzione e senza assumersene le relative responsabilità politiche. È di tutta evidenza che lo spirito che anima questa riforma è ispirato alla logica di un depotenziamento del tasso di democrazia delle nostre istituzioni. Una logica che sacrifica sull’altare di una presunta governabilità, e di un decisionismo male inteso, il valore della partecipazione democratica, del ruolo delle diverse componenti sociali, dei corpi intermedi e la tutela delle opposizioni. Questa impostazione risulta più che confermata nei due principali interventi di modifica su cui fa perno questa riforma: quello sul Senato della Repubblica e quello sul titolo V della Costituzione (competenze statali e regionali). 

Per quanto riguarda il Senato il segnale predominante, al di là della stessa riduzione del numero dei senatori e della presunta sua trasformazione in “Camera delle autonomie”, è la scelta, caparbiamente voluta dal Governo, di sostituire l’elezione diretta con l’elezione di secondo grado da parte dei Consigli regionali. Una scelta che costituisce un oggettivo impoverimento democratico e che espropria il cittadino elettore a favore di una specie di “oligarchia riservata”. Un ulteriore colpo alla partecipazione di cui - in un momento nel quale l’allontanamento della gente dalla politica e dalle istituzioni è sempre più debordante - non si sentiva certo il bisogno. Per quanto concerne poi la riforma del titolo V, già dissennatamente modificato nel 2001 - e che obbiettivamente esigeva un intervento risoluto per sciogliere in termini equilibrati il “nodo gordiano” dei conflitti di competenza tra Stato e Regioni - va detto che si assiste ad un generalizzato riaccentramento delle competenze sullo Stato centrale: senza nessuna attenzione verso il principio di sussidiarietà e di corretta autonomia territoriale. Si rischia così lo svuotamento politico di quelle stesse Regioni cui, paradossalmente, la riforma affida, nel contempo, l’elezione e la gestione della “nuova seconda camera”. Da tutto questo coacervo di interventi scaturisce anche, come ulteriore motivo di preoccupazione, la marginalizzazione del ruolo delle opposizioni nella scelta degli organi di garanzia: l’elezione del presidente della Repubblica, l’elezione dei giudici della Corte Costituzionale e l’elezione di un terzo dei membri del Consiglio superiore della magistratura. La riduzione del numero dei senatori congiuntamente all’elezione indiretta e ad una legge elettorale iper-maggioritaria, determina, infatti, un impressionante aumento del potere della maggioranza ed il conseguente rischio di un suo controllo, sempre più oligarchico ed esclusivo, sul complesso delle istituzioni.                                                                                           

Pier Paolo Saleri




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